F. ELIAS DE TEJADA, Le radici della modernità

Edizioni Solfanelli, Chieti 2021, pp. 184

 

Nel suo Radici della modernità, lo storico e filosofo del diritto Francisco Elìas de Tejada offre una finissima ricostruzione storico-genealogica delle cause per cui la modernità (intesa non sotto il profilo evenemenziale ma come opzione precisa, modello teorico filosoficamente assunto) si è imposta sulla Cristianità. Essenzialmente tre, per l’autore, le radici ideologiche di tale trasformazione: il Protestantesimo, il Giacobinismo (con la Rivoluzione Francese) e il Marxismo: tutte sfaccettature di un unico, imponente e tentacolare processo rivoluzionario. Se, dal punto di vista storico, la Cristianità medievale fu «quella costruzione prodigiosa e unica che realizzò o cercò di realizzare la città di Dio sulla terra» (69), di contro «questa Europa moderna …è la negazione della Cristianità”» (73), ovvero il rinnegamento dello spirito di fede militante, di una cultura semplice e profonda «che va dritta e veloce alla viva essenza delle cose» (80). Si constata, nel solco di tale negazione, il trionfo dell’immanenza sulla trascendenza; della “città degli uomini” sulla civitas Dei; il disfacimento degli eroici milites Christi e, in generale, di quel “desiderio di unità e universalità” divenuto realtà con Carlo Magno e tutta l’opera di gerarchizzazione del popolo cristiano attorno al Papato e all’Impero. La crisi emerse allorquando, secoli dopo, gli stessi Impero e Chiesa, assi cardinali disuniti, «caddero avviluppati dai loro conflitti, poiché né l’uno né l’altro potevano da soli svolgere il loro ruolo direttivo o domare le lotte intestine» (109). In tale ferita fecondarono, lente e inesorabili, le radici della rivoluzione, annunciate entusiasticamente dai «primi progressi del mondo antico, la riscoperta del Rinascimento, la riscoperta del vecchio paganesimo» (114), sorta di promesse per una definitiva vita terrena felice. Una tale rivoluzione antropocentrica trova l’apice in Lutero: nel suo Von der Freiheit eines Christenmenschen egli condensa, come “in un gigantesco vaso di Pandora” (scrive de Tejada), le radici dei nuovi mali, tutti imperniati su di una nuova concezione dell’uomo, quella per cui spirito e corpo sono separati (e, con essi, fede e opere; idea e realtà). Se la fede è sufficiente per salvarsi, perché in fondo essa sola giustifica, è vano l’agire umano. Così, «neppure i comandamenti hanno un valore prescrittivo» (119): la predestinazione tutto orienta perché tutto ha già deciso. Tutt’altro che libero, all’uomo non resta che “credere”, in una prigionia soggettivista che si riduce a pagano fatalismo. In fondo, «l’intera rivoluzione moderna si basa su questa proposizione fondamentale: negare che l’universo giri attorno all’oggettività stabilita da Dio e affermare che l’universo ruota attorno alla soggettività di un uomo» (121). Ma questo, ci ricorda de Tejada, non è che il principio del processo rivoluzionario; paradigma filosofico che anzitutto predica il primato dell’ideale sul reale; con una Verità molteplice in quanto progressiva e mutevole come lo sono le idee svincolate dalle cose. Il giacobinismo fu la prima, diretta conseguenza di una filosofia idealista: i suoi adepti, riuniti in club cospiranti contro l’Ancien Régime, ben presto imposero “devotamente” un nuovo ordine basato su una nuova fede, la “religione dell’Umanità”, quella «dei cosiddetti philosophes del XVIII secolo; il culto della ragione di Voltaire, la fede nel progresso di Condorcet; l’ottimismo antropologico di Rousseau, il concetto di Grande Architetto dell’Universo delle logge massoniche, la speranza di un paradiso sulla terra» (150). Speranza, questa, ereditata mutatis mutandis dall’utopia marxista; mitica proprio in quanto utopica. Qui, il definitivo trionfo della prassi sull’Essere (tutto preparato dall’Idea hegeliana, per cui Denken e Sein, logica e ontologia sono indistinti) conduce al «paradiso di questa religione atea», in cui l’uomo è posto «sull’altare dove prima era adorato Dio»; ribellione travestita di «escatologia trionfalista in cui il nuovo popolo eletto, il proletario calpestato nel corso dei secoli, costruirà da sé stesso e per se stesso il paradiso dell’Umanità» (172). Ma, insegna la storia e ancora prima la recta ratio, la modernità non è criterio di validità: dura fin quando si imporranno le sue opzioni. Ed è così che l’uomo -questo, in fondo, il messaggio di de Tejada- può e deve tornare all’attuale, a ciò che “vale” perché vero; perché “sempre in atto”, al riparo dal potenziale incerto e mutevole. Ecco l’“ordine vitale” (in fondo tradizionale) a cui ogni autentica società -di fondazione universale e concrezione particolare- deve appellarsi. Ordine, questo, che risplende nell’ontologia e teleologia politica classiche che già Tommaso d’Aquino magistralmente predicava. Esso -come Giovanni Turco ben individua e riassume in Introduzione- «presuppone la naturale razionalità e politicità del soggetto umano ed il bene comune come fine obiettivo della comunità politica; riconosce il primato della giustizia -quindi del diritto naturale classicamente inteso- come fondamento del diritto positivo; richiede la prudenza politica come criterio prossimo dell’esercizio dell’autorità» (66). Si impone la necessità di una Riforma, contro ogni effimera -seppur dolorosa- Rivoluzione. In una tale “buona” società, che ha ben poco del mito luterano, giacobino e marxista, il filosofo de Tejada ripone ogni autentica speranza di umana felicità.

Chiara Dolce